MICOL SACCHI
INTRODUZIONE DI LAURA MANCA
L’autrice è Micol Sacchi, un sorriso con i capelli biondi che tutte le mattine entra nell’aula della terza liceo classico. La danza e la fotografia sono le sue passioni, film e libri compagni fondamentali. Con questo racconto, nato dopo una lezione del Professor Tiziano Ziglioli, ha partecipato all’edizione 2016 del Premio Letterario Nazionale “Arte di Parole”. Non ha vinto, ma la profondità delle sue parole, che sembrano poesia, rende “Ossimori” degno di essere letto. Una storia individuale che cela il dolore di un’intera nazione, un presente sereno in cui riaffiorano gli echi di un passato nascosto e tormentato.
OSSIMORI
Il mio mondo è composto da aggettivi.
Il Sole è rovente e protettivo. La pioggia fredda e silenziosa. La mia città grigia e indifferente, mentre la casa in cui vivo accogliente e polverosa.
Io sono sicuro e insicuro.
Il mio mondo, oltre che da aggettivi, è composto anche da antitesi. Contrari. Ossimori.
Mi piace la parola ossimoro. Deriva dal greco oxys, acuto e moros, ottuso. Insomma, un concetto impossibile in cui due parole completamente opposte vengono associate. Ghiaccio bollente, parola muta, tranquilla disperazione.
Tutti i giorni faccio colazione con il nonno, l’unica persona che la vita mi ha risparmiato, ma che non ha risparmiato lui. Ogni volta che guardo i suoi occhi, attraverso le sue iridi del colore del cielo, intravedo lacrime che non può piangere, ma allo stesso tempo quella serietà e quell’autorevolezza con cui tutti lo descrivono.
Un’altra contraddizione.
Ha perso nonna quando era molto giovane e quando la sua bambina era ancora una neonata bisognosa di una mamma. Ha perso la figlia vent’anni dopo, quando finalmente aveva ricominciato a credere di poter essere di nuovo felice. Con lei se n’era andato anche mio padre, il marito di sua figlia. Incidente d’auto. Stavano uscendo a cena per festeggiare l’anniversario di matrimonio.
Così gli ero rimasto solo io, un bambino scalmanato con una voglia matta di correre e giocare, di saltare e scherzare con degli amici che non ha mai avuto.
Trascorro le mie giornate tra i libri. Il nonno, appassionato lettore, vuole che io studi, mentre lui, seduto sulla sua poltrona dall’aria così scomoda ma anche così regale, legge le sue opere preferite che poi mi porge desideroso di un’opinione. Catullo, Ovidio, per poi fare un salto nei secoli e dedicarsi a Shakespeare e Dostoevskij. Uno dei libri che prende in mano più spesso è però l'”Ulisse” di Joyce. Da quando sono piccolo mi promette, ogni volta che i miei occhi cupidi di emozioni si posano su quella copertina rovinata e ingiallita, che quando sarò più grande il regalo migliore che potrò mai ricevere sarà proprio quel romanzo. O come lo chiama lui flusso di coscienza.
Ama smodatamente la lingua greca. Molte delle sue riflessioni e dei suoi scritti, che spesso condivide con me in quei pomeriggi uggiosi di fine autunno che sembrano portar con sé solo malinconia e tristezza, vertono intorno ad essa.
Ho deciso di iscrivermi a scuola, proprio per questa sua passione che cerca di trasmettermi con insistenza e di cui, con il passare del tempo, mi sono innamorato. Con gli altri ragazzi posso studiare e scherzare e tornare poi a casa per accudire il nonno che piano piano sta diventando sempre più debole.
Il nonno è buono. Buono come il pane, come direbbe quell’amico italiano che ogni tanto il nonno incontra nei suoi lunghi e bui pomeriggi d’inverno. Hanno l’abitudine, quei due, di rinchiudersi per ore in biblioteca e di uscirne solo per l’ora del tè. Chissà di cosa parlano durante quelle lunghe ore; me lo sono sempre chiesto, ma l’unica cosa che che so per certo è che quando escono sono entrambi di buon umore.
A dire la verità ho sempre avuto la tentazione di origliare attraverso lo spesso portone di legno di quercia intagliato che separa la grande biblioteca dal resto della casa.
Accadde solo una volta, ma comunque non capii nulla.
Utilizzavano parole strane, che non sapevo esistessero. Parlavano di un certo nazismo, che, da quanto intuii, era un movimento o un partito ormai scomparso e sembravano ricordare un passato vissuto insieme.
Quella sera avevo poi chiesto al nonno chi fossero i nazisti, ma la sua risposta era stata vaga e nei suoi occhi aveva fatto capolino un lampo di paura e di irrequietezza.
Mi fece capire che non avrei più dovuto chiederglielo.
Per un certo periodo, dopo quell’avvenimento, ho cercato di non pensarci. Il nonno era diventato più dolce e giocoso. Mi comprò persino un trenino di legno, delle gallerie e le rotaie che, attraversando piccole montagne innevate, correvano con curve da capogiro. Lo avevamo posizionato al centro del salotto, dove solitamente prendeva posto il tavolino da tè intarsiato. Passavamo ore e ore cambiando il suo percorso e parlando di viaggi.
Le cose non sono ancora cambiate: giochiamo con il trenino e leggiamo insieme quasi tutti i pomeriggi. Le sue mani sono però sempre più stanche e pesanti.
Mi piacciono, le sue mani. Hanno fatto di tutto, tutto quello che di buono può esserci su questa terra: hanno accudito una figlia, un nipote, li hanno accarezzati, hanno dato loro da mangiare e di che vivere. Hanno detto addio alle persone amate con una carezza, la stessa che mi danno tutte le sere prima che il loro proprietario si ritiri nella sua camera.
*
Mi alzo. Dopo essermi vestito e aver acchiappato tre biscotti dal contenitore di latta della cucina prendo la bici e mi dirigo verso la scuola. Il nonno, come ogni venerdì, è andato al cimitero a trovare la moglie e la figlia.
Lezione di storia. Essendo all’ultimo anno, il programma prevede uno studio approfondito della storia contemporanea.
“Pagina centotrentatré, ragazzi”. La voce del professore ci accoglie sempre con un numero, mai con un saluto. Apro il libro pieno di orecchie. A pagina centotrentatré è raffigurato un uomo con un’uniforme rigida e spaventosa, che tende il braccio verso l’alto. I baffetti gli ornano un viso da pazzo, gli occhi quelli di un maniaco. “Voi tutti saprete chi è quest’uomo”. L’affermazione dell’insegnante mi coglie alla sprovvista. Una rapida occhiata ai miei compagni di classe mi fa capire che, per la prima volta da quando frequento la scuola, non so di cosa il professore stia parlando. Alzo la mano incerto. “Dimmi caro. Tu cosa sai di lui?”. La mia voce si fa timida e impaurita “Beh, veramente io non conosco quest’uomo. Volevo chiederle proprio questo”. La descrizione che ne segue lascia la mia anima turbata. Quelle parole mi rimbombano nella testa come se qualcuno continuasse a urlarle a pochi centimetri dalle mie orecchie.
Violenza, Germania, Seconda Guerra Mondiale, Hitler, ebrei, uccisioni, genocidio.
Nazismo.
Mi fermo dopo la lezione per parlare con il professore. Gli chiedo come potrei avere informazioni in più sull’argomento. Fisso i suoi occhi e trovo per loro due aggettivi: vivi e coraggiosi. Deve avere l’età che avrebbe avuto ora mio padre se non fosse mai accaduto quell’incidente.
Mi guarda. Il suo sguardo è pieno di comprensione e di compassione. Mi spiega che quello non è stato un bel periodo per la Germania. Suo padre, ad esempio, fu costretto ad arruolarsi, ma fu ucciso perché non si era rivelato abbastanza fedele al fuhrer. Il fuhrer è Hitler, mi spiega, il capo dei nazisti.
Esco dalla classe con più interrogativi di quelli con cui ne ero entrato.
All’improvviso, mentre osservo le ruote della mia bici sobbalzare leggermente sullo sterrato che mi porta a casa, mi balena per la testa un ricordo. Un’uniforme, simile a quella che avevo osservato qualche ora prima nel libro a scuola. Nell’armadio del nonno. Non l’avevo fatto apposta, ad aprirlo e a guardarci dentro. Mi serviva solo una coperta e l’unico luogo in cui pensavo di poterla trovare era proprio quello.
Faccio un breve calcolo.
Il nonno aveva venticinque anni quando il nazismo incominciò ad affascinare la Germania e i giovani tedeschi.
Quella sera non apro bocca a cena e non lo faccio neanche i giorni successivi.
Il nonno mi guarda preoccupato e sorpreso.
La domenica mi rivolge finalmente la parola. “Cos’hai?”. La sua voce risuona nella biblioteca, attutita dall’ampio tappeto persiano che adorna il parquet.
“Posso farti una domanda, nonno?”.
“Certo ragazzo mio, chiedimi ciò che vuoi”.
“Hai combattuto e ucciso per il Nazismo?”.
Mi chiedo se quelle mani, che mi hanno accarezzato e fatto giocare, possano aver mai fatto del male ad altre persone. La risposta che mi darei sarebbe sicuramente negativa, ma preferisco aspettare la sua, sperando che non riveli ciò che temo.
Un silenzio assordante prende il controllo della stanza e costituisce la risposta alla mia domanda.
Silenzio assordante.
Un ossimoro. Un altro.
E mi viene in mente un solo aggettivo.
Tradito.