MARGHERITA STEFANUTO
Il fumo di una sigaretta si levò denso e grigio nell’aria gelida della notte, sporcando la trapunta vellutata del cielo.
La ragazza, spegnendo la brace sulla ringhiera del balcone, si strinse di più nella sciarpa, espirando un’ultima volta, verso le stelle, così diverse dalle luci della città: i bagliori artificiali si levavano esitanti, come candele in una cattedrale, riflessi di vite semplici, momenti imbevuti di preghiere quotidiane, istanti che lei non conosceva bene.
Lo sguardo le cadde non troppo lontano dove, oltre al vetro della portafinestra, giaceva, appoggiata sul tavolo, la vecchia Olivetti del padre… già, suo padre, lo stesso che prima l’aveva incoraggiata e poi l’aveva ostacolata, sempre con lo stesso identico strumento, ovvero quella dannata macchina da scrivere che, forse stoltamente, forse per abitudine, forse ancora perché, in fondo, ci era affezionata, si ostinava ad usare.
Forse gliel’aveva regalata per ripicca, per ricordarle che lei non era come lui voleva che fosse, non era normale, o magari solo per un tentativo di riappacificarsi con lei, non lo sapeva.
Un clacson e uno stridio di freni la riportarono a fissare prima la strada, e poi, di nuovo, il firmamento.
-Perché? Perché non posso avere una vita normale, una famiglia normale? – sussurrò alle stelle, l’unica preghiera che conosceva.
Loro non le avevano mai risposto, e la sua unica certezza era che non l’avrebbero mai fatto.
Una piccola, insignificante sicurezza nell’imprevedibile gioco della vita cui le continuava a voler giocare.
Un brivido freddo le corse lungo la schiena, risvegliandola dallo stato di trance in cui era stata fino a poco prima, facendole ricordare di essere all’aperto.
Anche se restia a lasciare la sua contemplazione, rientrò, chiudendosi tra quelle quattro mura intonacate di bianco, sedendosi davanti all’Olivetti per poi accendere la piccola lampada da tavolo, illuminando il legno scuro e il metallo azzurro polvere.
Prese un respiro tremante, non appena le dita cominciarono a battere veloci sui tasti della macchina, il cui rumore risuonava per tutto il suo piccolo appartamento.
“Era una notte buia e tempestosa…”
-Chi cazzo sono, Snoopy?- brontolò stizzita accartocciando il foglio per poi buttarlo dall’altro lato del tavolo.
Si pietrificò sul posto, le mani a mezz’aria, gli occhi spalancati nella penombra; in quel momento, rivide in sé sua madre : tutte le mattine cominciate male, tutte le sfuriate su ogni piccola cosa, tutte le volte in cui non aveva potuto far sentire la propria voce… tutte le volte in cui, ingenuamente, le chiedeva se qualcosa che aveva ideato le piacesse lei rispondeva esattamente come aveva fatto lei, ovvero con un sonoro “Chi cazzo credi di essere, Snoopy? Smettila di scrivere idiozie e torna a studiare”.
Si ricordò delle ore passate in bagno, nuda davanti allo specchio, a cercare ogni minimo difetto, a domandarsi perché non fosse abbastanza, nemmeno per la sua genitrice.
Il regalo di quell’aggeggio era stato un madornale errore, così come ogni cosa che sforasse dall’ambito scolastico, che questo fosse un oggetto tecnologico o un abbraccio dato in una giornata storta.
Suo padre… non l’aveva mai incoraggiata davvero, aveva solo fatto finta per salvare le apparenze con sua moglie.
Immagini di ricordi cominciarono a fasi sempre più vividi nella sua memoria, affollandosi, sovrapponendosi, ognuno urlando il proprio diritto a essere riesumato.
Intrecciò le dita ai capelli, tentando disperatamente di smorzare quel flusso violento in cui rivide sua nonna squadrarla e giudicarla perché aveva scelto di studiare e di non fermarsi alle scuole medie, i suoi parenti guardarla disgustati quando aveva ammesso di avere interessi oltre al farsi una famiglia, perché voleva essere libera di poter scegliere di non essere solo madre e moglie.
Riprese il foglio, lo strinse per quella che le sembrò un’eternità, con una forza tale da far sbiancare le nocche.
Non riusciva a perdonare, non riusciva a ricordare i bei momenti passati in famiglia, perché c’erano, erano lì, ma quelli in cui non aveva avuto il coraggio di far sentire la propria voce e dire “basta” li superavano di molto.
Le lacrime cominciarono a rotolare silenziose sulle guance, inzuppando inevitabilmente la pagina che aveva davanti. Quando gliene cadde una sulle sue mani, per un momento temette stesse per sciogliersi come la cellulosa che teneva stretta.
Tremava guardando le sue mani di carta macerarsi nel fluire delle sue emozioni, accartocciarsi sotto il peso schiacciante della vita.
Si alzò di scatto facendo cadere la sedia a terra e corse verso il bagno, inciampando nei suoi stessi piedi.
Quando accese la luce e si vide riflessa nello specchio, la sua immagine era sconvolta. Un forte senso di nausea le attanagliò lo stomaco, la testa cominciò a girarle e farle male, come dopo una notte di baldoria. Si aggrappò al lavandino come se ne dipendesse della propria vita, il respiro irregolare, i polmoni pesanti come piombo.
Lo sguardo le cadde su delle vecchie forbici che aveva usato quella mattina per potare il ciclamino della cucina, abbandonate sul mobile accanto a lei.
Le prese in mano, titubante sul da farsi. I suoi occhi lampeggiavano nella semioscurità della minuscola stanza, creando uno strano gioco di chiaroscuro.
Un’ ultima occhiata al suo riflesso e poi un suono sordo, coperto da singhiozzi più o meno silenziosi, iniziò a riempire l’aria intorno a lei.
Le ciocche presero a cadere sempre più numerose e spesse, sporcando la ceramica immacolata del lavabo e il pavimento, facendo addensare ancora di più le ombre attorno alle sue caviglie.
Si fermò, scompigliando la zazzera ormai corta e irregolare, facendo svolazzare piccoli ciuffi che le si attaccarono alle guance ancora umide.
Il sapore acre del fumo le bruciò la gola quando si sorprese a sorridere alla propria immagine mutata, a quella che sarebbe sempre dovuta essere ma che aveva sempre avuto paura di vedere.
Ripose le forbici dove le aveva trovate e tornò nel salottino, dove l’aspettava, monito di quello che era sempre stata, quella dannata macchina da scrivere.
La prese tra le mani e, con non poca fatica, la ripose in un angolo dietro al divano, in modo che fosse sempre presente, ma che lei non riuscisse a vederla nemmeno accidentalmente.
Raddrizzò la sedia e prese posto al tavolo, e, alla flebile luce della lampada, con come complici solo un quaderno dalle pagine strappate e una penna smangiucchiata presa da un alquanto consunto astuccio dei tempi della scuola, ricominciò a scrivere, sorridendo.
La sua grafia era sottile e disarmonica, complice anche la mano tremante stavolta non per paura dei ricordi, ma per la loro accettazione e per una felicità nuova che non riusciva a spiegarsi.
Si sorprese a pensare che tutto sarebbe andato bene, e, per la prima volta nella sua vita, ci credeva veramente.
Se avesse guardato il cielo, probabilmente avrebbe visto che, quella piccola, minuscola stella che nessuno aveva mai notato, in quel momento stava brillando forse con più forza delle altre, imponendo la sua luce e la sua presenza nella sconfinata distesa del cielo.
Sì, ogni cosa sarebbe andata per il meglio.