CAROLA CERMINARA
Tra gli anni ‘80 e ‘90, il professore di psicologia americano Shepherd Bliss coniò il termine “mascolinità tossica” (in inglese toxic masculinity), al fine di indicare una serie di norme e comportamenti che, nell’immaginario comune, vengono associati all’idea di “essere uomini”. Questa nuova terminologia permise di esprimere un concetto ancora non riconosciuto, ovvero la possibilità che il modello di mascolinità imposto da secoli su generazioni di ragazzi potesse essere non solo inadatto, ma persino dannoso.
È necessario fornire un’ulteriore contestualizzazione per comprendere un’idea tanto complessa, e a suo modo fraintendibile. La mascolinità tossica non fa riferimento a tutte le qualità genericamente associate alla sfera maschile, come coraggio, passione e prestanza fisica, ma a estremizzazioni di queste. Il modello di “maschio” ideale disegnato dalla nostra società richiede forza (fisica e psicologica), indipendenza, orgoglio e controllo. Nessuna forma di debolezza è ammessa: non si piange, non si parla dei propri sentimenti e ci si mostra sempre forti, in eterna competizione per la posizione di alpha nel branco. In questo contesto, le parole assumono un peso enorme: tutto ciò che è associato alle donne ha una connotazione estremamente negativa, di intrinseca debolezza (esempio lampante è la definizione “femminuccia”). È interessante notare anche, a questo proposito, come sia perfettamente accettabile (oggigiorno) che una donna porti pantaloni e capelli corti, quasi ad imitare l’uomo, mentre è percepito come degradante un uomo truccato, che indossa vestiti o che dimostri atteggiamenti “effeminati”.
La mascolinità tossica riguarda quindi gli uomini, ma è indissolubilmente legata alla misoginia: in un mondo dove in cima alla piramide regna il maschio forte, dove tutto ciò che è rosa è frivolo e fragile, come ci si può aspettare un rispetto sincero nei confronti dell’altro sesso?
Questo sistema, che si ipotizza essersi affermato attorno alla Prima Rivoluzione Industriale (è difficile in realtà risalire ad una datazione precisa per qualcosa di così radicato nella società), ha creato un circolo vizioso di pressioni e aspettative sociali che ha logorato la salute mentale degli uomini, e il rapporto che hanno con loro stessi. Quello del “maschio alpha” non è nemmeno un modello ideale da seguire, quanto piuttosto un minimo sindacale da rispettare per essere considerato un vero uomo. Intrappolati nell’impossibilità di dimostrare i propri malesseri, derisi nel caso in cui decidano di cercare l’aiuto di uno specialista (per la legge del branco, è spesso impossibile cercare anche l’aiuto di amici o famigliari, che allontanerebbero l’individuo peggiorando la sua situazione), gli uomini presentano un tasso di suicidi circa due volte maggiore rispetto a quello delle donne (in Europa il rapporto è addirittura 4:1, cfr. https://en.wikipedia.org/wiki/Gender_differences_in_suicide). Nella nostra società, quindi, i ragazzi vengono scoraggiati sin dalla più tenera età a trovare una propria individualità, che si tratti di una linea di pensiero o semplicemente di un modo di apparire: ricordiamoci come le bambine vengono cresciute tra bambole, cucine ed elettrodomestici giocattolo, e i bambini con macchine, soldati e “innocenti” armi.
Bliss propone, per riconciliare gli uomini con un’espressione sana della propria mascolinità, un ritorno a quella che lui stesso ha definito come “mitopoietica”, ovvero la concezione di mascolinità che possiamo ritrovare nell’Odissea, ad esempio. Odisseo è un eroe, eppure piange pensando all’amata patria, e quando riabbraccia il figlio Telemaco, entrambi si commuovono. Tutto ciò non intacca assolutamente l’eroismo dei due uomini, anzi, aggiunge loro una fondamentale componente umana, che li porta più vicini anche ad un pubblico moderno. In particolare, il rapporto padre-figlio è secondo Bliss una delle maggiori lacune che presenta la società contemporanea, poiché un’assenza di questo legame porta ad una scorretta introduzione al concetto stesso di “essere uomini”: se “l’uomo di casa” dimostra affetto solo alle figlie femmine, o non ne dimostra affatto, la mente dei figli maschi si adatterà a quell’idea, che essere uomo significhi non freddezza, distacco; mai abbracciare un altro uomo, padre, amico, fratello che sia.
Bliss suggerisce diversi accorgimenti per rientrare in contatto la profonda natura dell’uomo, ma ritengo che il tutto si possa riassumere in una parola soltanto: tolleranza per il diverso e per noi stessi. La mascolinità tossica porta un nome estremamente esplicativo: essa avvelena tutto ciò con cui entra in contatto, non lasciando nient’altro che l’ombra di quel che ha distrutto. Proprio per questo abbiamo bisogno, tutti quanti, di imparare di nuovo il rispetto per gli altri e per noi, nella speranza di poter vedere, un giorno, le nuove generazioni fiorire sotto un nuovo sole, dove l’onta del pianto è dimenticata, un abbraccio o una carezza un diritto di tutti, dove il trucco e i vestiti non importano più così tanto, e il peso di doversi nascondere e limitare è rimosso dall’anima. Un giorno, forse, chi sarà in questo mondo al posto nostro non dovrà vergognarsi della cosa più bella di cui ci è fatto dono, la nostra individualità, il nostro essere non uomini o donne, ma umani.