BEATRICE CIVIERO

Aprile 2030: decimo anniversario del coronavirus

Ciò che successe nella primavera del 2020 fu sicuramente un evento inaspettato: da un giorno all’altro ci ritrovammo tutti chiusi in casa senza sapere cosa stesse davvero succedendo fuori e senza sapere quando saremmo potuti uscire di nuovo. D’un tratto ci rendemmo tutti conto che l’ultimo giorno di scuola prima delle vacanze di Carnevale, vissuto pensando di tornare in classe dopo poco tempo, sarebbe stato l’ultimo giorno di scuola per quell’anno; per qualcuno l’ultimo giorno di scuola superiore in assoluto. Quel posto tanto odiato iniziò a mancare a tutti, anche a coloro che vi erano meno affezionati.

Ciò che sicuramente non è mancato durante quel periodo sono state proprio “le mancanze”. Tutti, nessuno escluso, sentivamo del vuoto dentro di noi. Che fosse causato dagli amici o dai propri cari lontani, dalla mancanza di lavoro, dalla libertà negata, dall’insicurezza, ognuno sentiva il bisogno di ritornare alla normalità che avevamo sempre dato per scontata.

All’inizio non ci sembrò così negativa quella situazione: eravamo a casa e non eravamo obbligati a fare nulla, alla fine era ciò che avevamo sempre sognato, no?

Iniziarono poi le lezioni online e le seguimmo tra problemi di connessione e bruciore agli occhi per le troppe ore passate davanti allo schermo; spesso riuscivamo ad arrivare in ritardo anche alle videolezioni nonostante si tenessero in casa nostra… per mantenere le buone vecchie abitudini!

Da subito passammo ore ed ore in videochiamata con i nostri amici, stringemmo addirittura nuove amicizie, ma presto ci accorgemmo che un’ora in videochiamata equivaleva ad un minuto dal vivo. Guardando le foto con impressi i nostri ricordi, ci promettemmo grandi feste tutti insieme appena sarebbe stato possibile. Non vedevamo l’ora di riabbracciarci, baciarci, ballare, giocare, toccarci, amarci, staccarci da quegli schermi, sorreggerci l’un l’altro dopo serate memorabili, guardare le stelle distesi su un prato, uscire di casa, vestirci bene, truccarci, dividerci una sigaretta o una pizza e mille altre cose. Avevamo voglia di vivere come mai prima di allora. Presto ci rendemmo conto che ciò che in precedenza avevamo dato per scontato era quello che ci mancava di più. E ciò che credevamo fosse la nostra vita, a quel punto, non aveva più valore.

Quel periodo di isolamento estrasse con violenza il meglio ed il peggio di ognuno, lasciandoci la possibilità di decidere quale parte far prevalere. Non sempre fu facile scegliere il buon senso e il bene comune sul nostro bisogno di sfogarci, di sentirci liberi e, per alcuni, di evadere dall’ambiente famigliare a causa dello sviluppo di un rapporto negativo con i propri genitori (cosa non troppo rara durante l’adolescenza).

Cantare dal balcone con i propri vicini diventò l’unico modo per continuare a socializzare e le persone iniziarono a conoscersi urlando da una finestra all’altra. Esse si unirono contro un nemico comune, un nemico che non poteva essere combattuto con la ricchezza o il potere, che rendeva tutti ugualmente esposti al pericolo e fragili, impotenti. Questo fece sorgere nella gente una grande umanità, mai manifestata prima di allora, portandoci a compiere sacrifici per aiutare il prossimo. Un po’ tutti, chi grazie al suo grande pubblico, chi nel suo piccolo, organizzarono raccolte per donare fondi al sistema sanitario nazionale e viveri ai senzatetto. Ci furono altri episodi di solidarietà: tanti volontari portarono la spesa a casa alle persone più a rischio, alcuni servizi online normalmente a pagamento vennero resi gratuiti e chiunque avesse a disposizione delle mascherine monouso le donò agli ospedali.

Per sopperire alla mancanza di respiratori negli ospedali, un gruppo di ingegneri italiani progettò una valvola per trasformare una maschera da sub in un respiratore e misero il progetto a disposizione di tutti gratuitamente. Quella valvola fu utilizzata in tutto il mondo.

I medici, gli infermieri, i volontari e le forze dell’ordine si esposero enormemente al rischio di contagio e si impegnarono in turni di lavoro infiniti e sfinenti, restando lontani dalle loro famiglie per prendersi cura dei malati.

Un senso di paura e solitudine ci pervase dopo poco. La nostra paura era causata dall’incertezza del futuro: non sapevamo quando e come tutto sarebbe finito. Avevamo paura di perdere qualcuno di caro senza poterlo salutare; pensammo spesso ai nostri nonni in quel periodo perché erano i soggetti più a rischio. Nessuno di noi sapeva davvero quanto fosse pericoloso quel virus.

Banalmente avevamo paura di perderci l’estate: siamo sempre stati immensamente impazienti per l’arrivo della bella stagione, ma quell’anno avevamo un brutto presentimento. Sarebbe stato annullato tutto, le manifestazioni, le vacanze, i bagni al mare, le feste, gli incontri con gli amici. Tutto.

Di conseguenza arrivò la solitudine. Eravamo passati dalla prospettiva di rimanere qualche settimana in casa a doverci rimanere per mesi e, anche con un ambiente sereno e positivo intorno, prima o poi la mancanza del mondo esterno ci fece sentire soli. Il vuoto che si formò dentro di noi sarebbe stato colmato solo dalla libertà. Infatti, la mancanza di contatti con le altre persone ci rendeva spenti. Mai come allora sentimmo la necessità di comunicare.

Nonostante questo clima generalmente negativo, non ci lasciammo scoraggiare. Decidemmo di impiegare la nostra materia grigia nel modo più creativo possibile. I film e le canzoni diventarono parte di noi e noi parte di loro; sperimentammo nuovi generi musicali, guardammo film di tutti i tipi; ci innamorammo dei personaggi e con i personaggi. Alcuni di noi si avvicinarono alla lettura e alla scrittura, per sfogo o per curiosità.

Rasarsi i capelli a zero, farsi crescere la barba e i baffi o tagliarli entrambi…finalmente avevamo l’occasione per provare cose nuove che, per paura del giudizio altrui, non avevamo mai osato fare in precedenza. Avevamo l’opportunità di fare i conti con noi stessi e capire davvero cosa ci importasse: ci conoscevamo davvero? Cosa potevamo migliorare di noi? Cosa sarebbe cambiato nel nostro comportamento una volta finita la quarantena? Proprio perché in quel periodo non eravamo oggetto degli sguardi degli altri, cominciammo ad essere più consapevoli che l’aspetto non era tanto importante quanto l’interiorità con cui dovevamo convivere tutti i giorni. Ma questo sarebbe durato una volta tornati alla normalità?

Nella nostra generazione niente aveva mai fermato la vita come la pandemia e, quindi, per la prima volta avevamo l’occasione di riflettere sul nostro futuro. Potevamo finalmente pensare a cosa ci sarebbe piaciuto fare da adulti, quale sarebbe stato il nostro lavoro o la nostra carriera universitaria. Tanti trovarono delle risposte, mentre altri non arrivarono a prendere delle decisioni, ma almeno capirono a quale ambito si sarebbero dedicati.

Renderci conto che nessuno si sarebbe mai aspettato di trovarsi in una situazione come quella ci fece pensare spesso alle varie occasioni che avevamo perso, ed erano tante, in ogni ambito della nostra vita. Capimmo finalmente che nulla era impossibile: sarebbe potuta succedere qualsiasi cosa senza preavviso. Così promettemmo a noi stessi che non avremmo più sprecato occasioni, non avremmo più rimandato o posticipato, ci saremmo dichiarati, ci saremmo buttati. Da quel momento in avanti vivemmo ogni giorno, ogni attimo della nostra vita come fosse l’ultimo.